Tra la California e le Hawaii, nella parte orientale del vortice subtropicale del Nord Pacifico, è situata la Grande chiazza di immondizia del Pacifico (Great Pacific Garbage Patch, GPGP), un imponente ammasso galleggiante di manufatti per lo più in plastica come reti, rottami e rifiuti che convergono nella stessa area a formare quella che è famosa per essere la più grande tra le “Isole di plastica”.
Secondo uno studio del 2018 circa il 60% della plastica prodotta dall’uomo, essendo meno densa dell’acqua marina, quando viene dispersa in mare può essere trasportata dalle correnti fino a raggiungere i vortici oceanici che fungono da zone di accumulo. Sia durante il tragitto che una volta giunti a destinazione, questi oggetti subiscono un processo di demolizione molto lento, finendo per restare nell’ambiente per lungo tempo, rilasciando frazioni di sé anche molto piccole (fino ad arrivare alla classe dimensionale delle cosiddette microplastiche) che mantengono però quasi inalterata la loro struttura molecolare e di conseguenza la loro capacità inquinante. L’inquinamento da plastica mette a rischio la vita di moltissime specie marine a più livelli, dai problemi legati alla sua ingestione, fino all’intrappolamento e al soffocamento, e attraverso un effetto a cascata, la tossicità di questi polimeri torna a noi attraverso la tavola.
Nonostante siano impropriamente chiamate Isole, il termine più appropriato sarebbe vortici o chiazze, e secondo lo studio, si stima che possa estendersi per circa 1,6 milioni di chilometri quadrati e che contenga circa 79 mila tonnellate di plastica di varie dimensioni, ma l’argomento è ancora dibattuto poiché non esistono criteri univoci nel considerare cosa faccia parte della chiazza e cosa no, e alcuni ritengono che attualmente i suoi confini superino l’equivalente della superficie degli Stati Uniti.
Seppure il pensiero di scegliere queste “isole” come meta delle nostre prossime vacanze possa non sembrare particolarmente allettante, uno studio del 2021 ha evidenziato come molti organismi abbiano “optato” per una permanenza a lungo termine su queste zattere di plastica. Queste comunità neo pelagiche[1] accolgono anche invertebrati costieri non adattati alla vita in mare aperto, ma capaci di stabilirsi e procreare sui rifiuti plastici che galleggiano sulla superficie dell’oceano dopo essere stati dispersi.
Da sempre, attraverso il fenomeno che in ecologia viene chiamato “rafting oceanico”, alcune specie costiere hanno colonizzato nuovi ambienti, ad esempio sfruttando materiali e detriti di origine vegetale, ma la peculiare longevità della plastica (molto stabile grazie anche alla sua superficie idrofobica) ha permesso a questi piccoli naufraghi di percorrere distanze davvero significative formando comunità pressoché stabili presso un areale del tutto differente da quello di origine.
Il ritrovamento nell’area, su detriti riconducibili allo Tsunami che colpì il Giappone nel 2011, di specie marine costiere ancora vive, testimonia quello che ad oggi sembrerebbe il più grande evento di “rafting oceanico” (oltre 6000 chilometri) su scala globale.
L’idea che la vita sappia approfittare di ogni occasione e conquistare persino ambienti così peculiari può affascinare e non poco, ma questa nuova scoperta porta con sé importanti timori e perplessità: come reagiranno le specie già presenti in quell’area, che durante il corso dell’evoluzione hanno sviluppato ingegnosi meccanismi di sopravvivenza, ad un così brusco cambiamento e alla presenza di questi insospettabili nuovi vicini? E quante sono le probabilità che queste specie alloctone (ovvero originarie di un areale differente) possano in qualche modo raggiungere la terraferma e occupare nicchie ecologiche già a rischio, minando ulteriormente la biodiversità del nostro pianeta?
Dalla graduale scoperta di questo nuovo mondo iniziata verso la fine degli anni 80 fino ad oggi, molte realtà si sono attivate per cercare soluzioni e tra le tante, il progetto The Ocean Cleanup sta ottenendo considerevoli risultati nell’intercettare i rifiuti prima che si riversino in mare attraverso alcuni grandi fiumi e “ripulendo” parte del vortice del Pacifico grazie ad un sistema galleggiante capace di intrappolare i materiali plastici. La società No-profit fondata nel 2013 ha riportato di aver rimosso in 3 mesi quasi 29 mila chilogrammi di materiale plastico durante il solo test del loro primo sistema di pulizia degli oceani su larga scala, prevedendo di poter creare una flotta capace di ripescare quantità significative di residui nei prossimi anni.
Fonti:
Lebreton, L., Slat, B., Ferrari, F. et al. Evidence that the Great Pacific Garbage Patch is rapidly accumulating plastic. Sci Rep 8, 4666 (2018).
Haram, L.E., Carlton, J.T., Centurioni, L. et al. Emergence of a neopelagic community through the establishment of coastal species on the high seas. Nat Commun 12, 6885 (2021).
sito di the oceancleanup
[1] Pelagico significa “del mare aperto”
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